Novembre e dicembre sono sempre periodi di fuoco per chi lavora nel settore, anche se quest’anno è tutto diverso e molto più strano. Fra progetti mastodontici, interpretariati da remoto e un sacco di corsi di formazione e studio individuale, mi sono ritrovata a fine novembre senza avere un post pronto per il mese successivo.

Questa cosa all’inizio mi ha fatto sentire in colpa da fare schifo, quasi come se avessi cannato una consegna per un cliente. Per le persone pignole e ligie al dovere come me, una cosa del genere sarebbe una sciagura. Poi ho cominciato un attimo a ragionare e mi sono domandata perché esattamente saltare un mese di post sarebbe stato così catastrofico.

Vedi, caro lettore o cara lettrice, dovresti sapere che io sono una maniaca del controllo. Non del tipo di persona che fa micromanaging (anche perché piuttosto che subappaltare un progetto lavoro io 48 ore ininterrotte), ma il tipo di persona che ama fare liste e pianificare il più possibile i propri impegni, in modo da tenere tutto sotto controllo e non perdermi pezzi per strada.

(sono arrivata anche a fare le liste delle liste da fare. Lo ammetto, potrei avere un problema.)

Comunque.

Quando ho aperto questo blog, mi sono ripromessa immediatamente di pubblicare almeno un articolo al mese. Non di più, non di meno: realisticamente parlando, so di non avere tempo per fare di meglio. E se c’è una cosa che non mi piace è andare sul sito di un’azienda o professionista e vedere che l’ultimo post sul blog è di dicembre 2009. Quindi consistency is key, mi sono detta.

Pochi ma buoni, o perlomeno è questo che sto provando a fare. Ultimamente ho anche iniziato a fare una serie di post informativi sulla traduzione e interpretariato, che – nel caso tu non li abbia visti e ti interessino – puoi trovare sul mio profilo LinkedIn o Instagram. Giusto per darti un’idea:

https://www.instagram.com/p/CG-XV1dlOw5/?utm_source=ig_web_copy_link

Insomma, come dicevo prima, fra un progetto e l’altro e fra un corso e l’altro, mi sono un po’ adagiata sugli “allori” degli articoli e delle bozze che avevo già pronti e mi sono ritrovata alla fine del mese senza un articolo pronto, o perlomeno un’idea per un articolo.

Mi sono guardata un attimo allo specchio e ho fatto i conti con me stessa. Devo dire qualcosa per forza, per far vedere che dico cose parlo con gente? Cosa devo dimostrare esattamente? E a chi, soprattutto? A me o a chi mi legge? Perché se mi fermo a pensarci un attimo non credo proprio che a te che mi leggi freghi qualcosa se per un mese salta un post sul mio blog.

Ma a me sì, eccome. Quindi ho voluto scavare un po’ e farmi qualche domanda, guardandomi allo specchio (si fa per dire) e cercando di capire perché provassi tutto questo disagio al pensiero di non pubblicare un semplicissimo post. Manco avessi chissà quale seguito o dispensassi consigli e informazioni che cambiano la vita.

Ma c’è sempre qualche corso in più da fare, c’è sempre un software o ambito di specializzazione da approfondire, c’è sempre qualche libro in più da leggere. Non prendo parte a una pratica di interpretariato con dei colleghi da non so più quanto, madonna. E via andare, giù per questa spirale di auto colpevolizzazione, altro che il tunnel del Bianconiglio.

Parlandone con amici e colleghi, ho scoperto di non essere la sola. Una piaga nel mondo dei freelance, ma che sono sicura non si limiti solo alle partite IVA, è infatti la sindrome dell’impostore. Questo termine è stato coniato a fine anni ’70 da due psicologhe, le dottoresse Clance e Imes, e sebbene partisse dalle donne, in senso lato descrive

“una condizione psicologica per cui si è incapaci di interiorizzare i successi personali, contraddistinta dalla paura di essere considerati degli “impostori” ed essere scoperti come tali. Spesso chi soffre di questa sindrome attribuisce la propria realizzazione personale alla fortuna piuttosto che al lavoro o alle capacità.”

Insomma, bell’affare. A quanto pare, come riporta Greta Ubbiali, questa problematica è stata accentuata dall’avvento dei social media e dalle specifiche circostanze verificatesi dalla crisi del 2008/2009 in poi:

“Siamo la prima generazione cresciuta con i social media e il confronto con gli altri è a portata di clic. Basta aprire la newsfeed di Facebook per vedere le vacanze da urlo degli amici o guardare su Linkedin gli avanzamenti di carriera degli altri.

E noi finiamo per sentirci sempre un passo indietro. Inoltre siamo entrati nel mondo del lavoro in un momento di innovazione tecnologica rapidissima e ogni giorno c’è qualcosa di nuovo da imparare, una novità da conoscere per essere competitivi.

Anche questo ci fa sentire inadeguati, come se non avessimo mai a sufficienza l’esperienza necessaria. La recessione globale ha contribuito a rendere tutto più instabile. Compresi i nostri pensieri. La crisi ha coinciso per molti con il periodo degli studi o dell’entrata nel mondo del lavoro.

Abbiamo dovuto adattarci ad un nuovo equilibrio. Il lavoro come lo conoscevano i nostri genitori non esiste più. C’è chi ha studiato e non ha avuto la possibilità di mettere in pratica ciò che aveva imparato e si è reinventato.”

Insomma, se da un lato ho tirato un sospiro di sollievo nell’aver trovato un po’ di solidarietà indiretta e condivisa, dall’altro sapere che così tante persone soffrono della sindrome dell’impostore è preoccupante.

Quindi ho deciso, con questo mio articolo, intanto di parlarne: parlare dei problemi è il miglior modo di esorcizzarli, analizzarli, condividerli, vederli sotto una luce diversa e diffondere consapevolezza. Anche solo per dire “hey, non sei solo/a”.

E poi voglio concludere con un inno all’imperfezione. Anche se è un po’ presto per fare la lista (per me, l’ennesima!) dei buoni propositi per il 2021, vorrei trovare il coraggio e la forza di sguazzare allegramente nella mia imperfezione e nella consapevolezza della limitazione delle mie conoscenze e possibilità.

Sì, ci sarà sempre un altro corso.

Sì, potrai sempre migliorare il tuo livello di lingua, la pronuncia, il lessico, vattelappesca.

Sì, ci sarà sempre un altro libro da leggere, un altro webinar da seguire, un altro software da imparare a usare. Ed è giusto e sacrosanto volersi migliorare, ma non è giusto sminuirsi se a fine giornata non ne abbiamo più e di schermi non ne vogliamo vedere manco dipinti.

Siamo comunque qui. Ci stiamo comunque provando, e spesso anche riuscendo. Siamo noi, spesso, a esigere tanto – forse troppo, date le circostanze.

Ho già parlato in passato di salute mentale e di quanto mi stia a cuore portare avanti un discorso onesto, anche quando questo non coincide con l’immagine da supereroina e donna in carriera che vorrei che tutti avessero di me. Penso ce ne sia più bisogno in generale, ma soprattutto in un anno come questo.

Quindi, caro lettore o cara lettrice, se sei arrivato fin qui, innanzitutto grazie: non do mai per scontato che qualcuno si legga tutti i miei post, quindi grazie di cuore e spero che questo post ti sia piaciuto. Fammelo sapere, ovunque tu mi stia leggendo!

Ci si risente (o rilegge!) nel 2021, quando spero che le cose inizieranno timidamente a migliorare.