Interprete e traduttore dal 2016, Federico ci racconta la sua esperienza come interprete – sugli schermi e non.

Ciao Federico, innanzitutto grazie per aver accettato di essere intervistato! Io e te ci conosciamo da un po’ ormai, ma racconta un po’ chi sei e di cosa ti occupi a chi ci legge.

Ciao a te, Sabrina! Anche se la tentazione di rispondere “ma chi ti conosce” è forte, farò il serio. Dunque, ti risparmio la finestra temporale che va dal ’91 al 2008 – anche se potrei raccontare di quanto sia stato bello essere un capellone e rinchiudermi in garage a suonare per ore – e salto al 2009, anno in cui sono approdato a Roma per frequentare il corso di laurea in Mediazione linguistica presso La Sapienza, dalla quale sono uscito con una tesi sul multiculturalismo nel film Babel di Iñárritu. In quello stesso anno, 2013, ho iniziato a frequentare il corso di Laurea magistrale in Interpretariato e Traduzione presso l’UNINT di Roma, con inglese e spagnolo, avvicinandomi al portoghese come terza lingua. E proprio il portoghese mi ha preso per braccio e portato verso la mia tesi di laurea magistrale: una traduzione di un romanzo portoghese inedito dell’Ottocento (Viaggi nella mia terra, di A. Garrett – un po’ un Manzoni lusofono). Ho concluso nel 2015 e da lì ho iniziato un po’ a mettere su la professione, lavorando ai primi eventi e macinando le prime ore di cabina e di penna e blocchetto. Poi negli anni successivi è arrivata la docenza in Interpretariato e Traduzione dal portoghese all’italiano, ho frequentato dei corsi professionalizzanti (ad esempio, uno in Medical Interpreting) e investito nella crescita del mio portoghese con corsi e certificazioni (e un dottorato in corso).

Durante la tua carriera hai avuto modo di occuparti delle materie più disparate, ma hai anche lavorato in televisione. Immagino che sia molto diverso da un incarico “normale”, per esempio una simultanea durante un convegno o una consecutiva per un festival. Com’è arrivato il primo incarico?

Lavorare in televisione è tutt’altra storia, hai ragione. Come sempre, dipende anche dall’indole personale, dalla situazione, dal tipo di incarico ma devo dire che già solo il fatto di sapere che hai un pubblico nettamente più esteso ha un certo peso. Non mi definirei interprete televisivo (d’altronde, in un lavoro complesso come il nostro, con cinque anni sul mercato è davvero difficile potersi identificare in un ruolo in particolare) ma sulla mia pelle ho avvertito le differenze: strumentazione diversa, tempistiche diverse, décalage tendente allo zero, poco margine di riformulazione e chissà quante altre difficoltà e abilità mi stanno sfuggendo in questo momento. Prima della TV ho avuto un paio di esperienze in Radio e da lì poi sono approdato presso un’emittente all news con la quale ho collaborato occasionalmente (lì sì che tremano le ginocchia) e più recentemente ho avuto l’immensa fortuna di calpestare il palco di studi televisivi per la produzione di programmi di intrattenimento.

Se dovessi elencare le principali, quali sono le differenze “per addetti ai lavori” tra una simultanea per un convegno e una simultanea in televisione?

Forse ho già risposto in parte: la strumentazione, innanzitutto, è diversa. Ad esempio, in alcuni contesti, al posto della consolle classica hai una postazione con un semplice tasto da pigiare quando vuoi interpretare e un mixer per poter bilanciare i suoni in entrata e decidere se ascoltare tutti i presenti in studio oppure escludere tutte le voci tranne l’ospite che devi interpretare: chiaramente non è funzionale se non in un contesto del genere.
Il décalage, poi, è inesistente: l’ospite parla, tu traduci. Nel senso più letterale dell’aggettivo “simultaneo”. Discorso a parte nel caso di discorsi veri e propri, trasmessi in contesto informativo (e.g. discorsi presidenziali) dove valgono le regole di una simultanea per così dire standard, quella che durante l’università tutti abbiamo provato almeno una volta alla lezione delle 08:00.

Quindi un tipo di incarico molto diverso. Da un punto di vista più personale come hai vissuto l’esperienza del “bello della diretta”?

Il bello della diretta l’ho vissuto praticamente ogni volta che ho avuto un incarico televisivo. L’adrenalina è tanta, l’ansia pure (a tratti, la seconda prevarica sulla prima). Quando si tratta di notiziari, ti trovi a tu per tu con le tematiche più varie, puoi contare solo sulla proverbiale conoscenza enciclopedica dell’interprete e cerchi di rimanere il più concentrato possibile. La definirei una strada tutta in salita e quando arrivi su sei stremato. Qualcuno ha detto che gli esami non finiscono mai, giusto?

Che differenze ci sono nella preparazione per un incarico “per la televisione” e un incarico di stampo più tradizionale?

Continuerei a conservare la differenza tra TV informativa e TV di intrattenimento. Anche se in entrambi i casi non hai modo di prepararti nello specifico, nel primo caso è più una preparazione e una formazione continua, soprattutto sui temi d’attualità e di politica (ma non solo). Probabilmente Lisa Simpson sarebbe un’ottima interprete con la sua “lieve tendenza alla tuttologia” (Cit.).
Per quanto riguarda la TV di intrattenimento, la formazione è altrettanto impegnativa e chiaramente divaga su temi più leggeri, ma non per questo è meno difficile. Tra le difficoltà che ho riscontrato in prima persona, provenendo da una formazione molto impostata e formale, mi viene da pensare al modo di rendere il lessico informale e la scelta del registro linguistico da adattare al personaggio e al pubblico, senza per questo suonare “sguaiato” o sfociare in una interpretazione sgradevole.

Che consiglio daresti a chi si trova ad affrontare una possibilità del genere, specialmente in termini di gestione dello stress e della resa?

Non sono in grado di dare consigli del genere perché secondo me questi due aspetti hanno a che fare più con la crescita personale ed emotiva che non con il lato strettamente linguistico-professionale. Sicuramente il consiglio che do anche a me stesso è quello di rendersi conto di non essere macchine perfette. Si cresce, si acquisisce dimestichezza, padronanza della lingua straniera e della propria lingua madre. È una professione che si costruisce col tempo. Poi bisogna anche essere onesti con se stessi e saper riconoscere sia i propri limiti che le proprie capacità.

Spesso noi simultaneisti siamo “schermati” dalla cabina, ma andare in televisione vuol dire dover ripensare alla propria immagine, al portamento, al linguaggio non verbale e – non ultimo! – la propria resa. Come hai affrontato questa grossa differenza?

Beh, in questo la mia esperienza è davvero ridotta all’osso: sono andato su schermo solo una volta. In fondo è un po’come una consecutiva, cerchi di presentarti bene e stare ben piantato sui tuoi piedi e sulle ginocchia tremule. Ricordo con grande emozione quella volta: entri in uno studio pieno, dall’altra parte delle telecamere e con riflettori puntati. Non capita tutti i giorni.

Federico, grazie ancora per averci parlato un po’ di te e della tua esperienza come interprete, sugli schermi e non. Per chi volesse mettersi in contatto con te, dove ti troviamo?

Grazie a te, Sabrina. Non serve dirti che è sempre un piacere. Per chi volesse, potete contattarmi alla più classiche delle mail (giannattasio.federico@gmail.com) fino all’informalità di FB (https://www.facebook.com/fgiannattasio/) o di LinkedIn (https://www.linkedin.com/in/federico-giannattasio-interpreter/).

Se ti è piaciuta questa intervista e ti piacerebbe sentir parlare di altre esperienze simili, o se hai un commento su quello che ci ha raccontato Federico, fammelo sapere nei commenti!