Attenzione: articolo lungo, ad alto contenuto di meme, fonti e ironia.

Nell’articolo di oggi affronto un tema che mi sta particolarmente a cuore: marketing, inteso come tutte le attività di autopromozione che facciamo noi freelance sul nostro sito, sui social e via discorrendo, e privacy.

Come se i social non fossero abbastanza già di per sé, ci troviamo (ahimè, ancora!) in un periodo storico particolare. Nel momento in cui scrivo questo articolo sono passati quasi 11 mesi dell’avvento della pandemia da Covid 19, che ha radicalmente cambiato – anzi, sconvolto – le nostre abitudini in ogni sfera della nostra vita.

Per entrare un po’ più nello specifico, quando si parla di interpretariato e traduzione è abbastanza difficile fare autopromozione sui social senza diventare ripetitivi e, oserei dire, quasi autocelebrativi. Postare foto come “oggi ho fatto questo convegno in questa città” o “questa settimana ho concluso un progetto di traduzione di XXXX parole” ci sta, ogni tanto.

L’abbiamo fatto praticamente tutti. Questa è un’altra di quelle cose che tutti fanno e nessuno dice: è bello far vedere che stiamo lavorando, che stiamo facendo quello che più ci piace e – implicitamente – far vedere che qualcuno si affida a noi come professionisti ed esperti del settore.

Io sono per il “vivi e lascia vivere”: se vedo un contenuto che non mi piace, non mi interessa o non ritengo utile, semplicemente passo oltre. Il discorso diventa un po’ diverso, però, quando questo contenuto può causare danni diretti o indiretti a qualcuno – che sia a me, libero professionista, o al mio cliente – o addirittura al mio settore. E qui arrivo al punto dell’articolo di oggi.

Sì, perché se prima potevamo – come interpreti – condividere una foto della location in cui ci trovavamo, dell’interno della nostra cabina o davanti al banner/poster dell’evento (spesso tutte informazioni di dominio pubblico), da quando siamo tutti bloccati a casa l’interpretariato da remoto ha preso il sopravvento e, beh, siamo sempre davanti allo stesso computer. It gets old pretty fast, come si suol dire.

Quindi, perché lo facciamo? Possiamo semplificare all’osso la questione e dire che it all boils down to marketing e percezione.

E questo ha anche significato un tripudio di post di varia natura, alcuni dei quali non si attenevano esattamente alle norme condivise della professione: infatti, la riservatezza è uno dei pilastri di questo lavoro. Per andare più nello specifico, i codici deontologici di alcune fra le più preminenti associazioni di categoria italiane e internazionali non menzionano specificamente il comportamento da tenere sui social, ma questo non dovrebbe fungere da deterrente.

È comunque bene menzionare alcune delle regole in tema di riservatezza citate da questi codici, perché il buon senso vorrebbe che si applicassero anche alle interazioni sui social e all’attività di marketing. Troppo spesso infatti tendiamo a trattare le interazioni online come qualcosa di scollegato dalla realtà, ma non è così. Ciò che facciamo, come lo facciamo e l’immagine che diamo di noi online può avere ramificazioni e conseguenze molto reali.

Ma passiamo alla nostra rassegna. Il codice deontologico dell’Associazione Italiana Traduttori e Interpreti (AITI, di cui faccio parte anch’io) parla di riservatezza nell’articolo 8:

Articolo 8. Dovere di segretezza e riservatezza

I. Il traduttore e l’interprete mantengono la massima riservatezza sulle informazioni e su tutti i documenti cui hanno accesso nell’esercizio della professione. Il dovere di riservatezza non decade con la conclusione della prestazione o del rapporto professionale.

II. Il traduttore e l’interprete si accertano che tutte le persone che li assistono durante il lavoro o con le quali collaborano rispettino le stesse regole di riservatezza.

Viene menzionato inoltre, in termini abbastanza generici, il divieto di “arrecare pregiudizio” alla professione:

Articolo 14. Pubblicità
I. Nell’attività di autopromozione, i traduttori e gli interpreti saranno veritieri e precisi e non arrecheranno pregiudizio al decoro della professione. Si asterranno da ogni forma di pubblicità che possa indurre in errore e dall’attribuirsi titoli, diplomi e competenze che non possiedono.
II. È vietata ogni forma di pubblicità ingannevole o comparativa.

Si potrebbe discutere a lungo dell’interpretazione di tale questione, che inevitabilmente potrebbe essere considerata in maniera diversa in base a fattori culturali e generazionali, ma in questo caso è interessante notare come si richieda ai propri membri di “farsi portavoce”, quasi, della categoria. Insomma, non fare qualcosa che possa danneggiare l’immagine dei professionisti dell’intero settore per via di comportamenti errati di un singolo.

In base, invece, alla sezione relativa al Code of Honour nel Code of professional ethics dell’AIIC (International Association of Conference Interpreters), il riferimento alla riservatezza lo troviamo qui:

Members of the Association shall be bound by the strictest secrecy, which must be observed towards all persons and with regard to all information disclosed in the course of the practice of the profession at any gathering not open to the public.

È interessante qui notare come la riservatezza a cui si fa riferimento sia “the strictest” – il che lascerebbe presupporre che anche un selfie, una foto della propria postazione in cabina o a casa senza alcun altro riferimento o cose del genere non siano comunque ammesse – ma che ci sia una clausola circa “tutte le informazioni trattate durante lo svolgimento della professione in qualsiasi riunione non aperta al pubblico”. La trovo una precisazione sensata, dal mio punto di vista. Ad ogni modo, da inizio 2020 nella sezione news del sito dell’AIIC si può anche trovare una interessante spunto di riflessione sul tema della Confidentiality in the age of social media:

Never before have individuals had such potential to reach out to a global audience to express their unique views, their personal talents, their heartfelt beliefs. With the click of a mouse or scroll of a thumb we can create communities of peers and potential clients. For professionals – especially freelancers – this means the potential to expand our market, to build our individual brand. But this also creates new pressures: we need to distinguish ourselves from the crowd, show our unique selling point. And this is where it gets dangerous.

Infine, secondo il codice deontologico di Assointerpreti:

5. I Soci, Candidati e Stagiaire si ritengono totalmente vincolati al segreto professionale. Tale segreto non comprende soltanto tutto ciò che può emergere nel corso di riunioni non pubbliche, ma anche tutte le informazioni di carattere non ufficiale di cui si può venire a conoscenza nell’esercizio della professione.

Secondo un interessante sondaggio proprio in merito all’uso dei social media, interpretariato e riservatezza svolto dalla collega Sarah Cuminetti (socia AITI, Assointerpreti e ATA), il 58,4% degli interpreti che hanno risposto al sondaggio ha postato un’immagine relativa a un incarico di interpretazione, e il 18,4% afferma di non aver richiesto il consenso del cliente, mentre appena il 21,4% dice di farlo “a volte”. Qualche altro dato interessante: il 57,6% sostiene che postare questo tipo di contenuti non contribuisca a migliorare la propria reputazione come interprete.

Quindi, perché lo facciamo? Senza lanciarci in un’analisi socio-antropologica di come i social abbiano drasticamente alterato il nostro rapporto con gli altri, sia sul piano personale che su quello professionale, possiamo semplificare all’osso la questione e dire che it all boils down to marketing e percezione. Come scrivevo in un altro articolo, il rovescio della medaglia è spesso la sindrome dell’impostore – di nuovo, legata sempre alla percezione che vogliamo proiettare di noi stessi.

Il 58,4% degli interpreti che hanno risposto al sondaggio ha postato un’immagine relativa a un incarico di interpretazione, e il 18,4% afferma di non aver richiesto il consenso del cliente, mentre appena il 21,4% dice di farlo “a volte”.

Per dirla senza mezzi termini, durante questi mesi ne ho viste di tutti i colori: video con tanto di audio della propria resa in interpretariato, foto di riunioni su Zoom con i nomi dei partecipanti in chiaro, fotografie della traduzione di turno con un sacco di informazioni in bella vista… insomma, banalmente, avrei potuto farmi gli affaracci di chi stava partecipando a quella riunione o di chi aveva commissionato la traduzione di quel documento senza neanche troppo sforzo.

Se mi stai leggendo e stai pensando “beh, ma che c’è di male?”, ti rispondo subito: privacy. Oltre alla fissazione del mondo moderno per la privacy – fondatissima, ma a volte superficiale: basta vedere lo spauracchio di inizio anno con WhatsApp – c’è una questione di fondo ben più importante.

Spesso e volentieri il materiale che ci viene affidato per una traduzione è riservato. Spesso e volentieri i contenuti che interpretiamo sono riservati – e magari noi non sappiamo a sufficienza di quell’ente, azienda o servizio per sapere quanto è confidenziale o sensibile un tipo di informazione. Anche se non abbiamo firmato esplicitamente un accordo di riservatezza o non divulgazione con il nostro cliente, è buona pratica evitare di diffondere sui social delle informazioni sensibili, proprio per tutelare i nostri clienti e soprattutto la nostra professionalità.

Infatti, non credo che i miei clienti sarebbero contenti se divulgassi ai quattro venti dei social i contenuti delle riunioni per cui io interpreto. Quante probabilità ci sono che vengano a scoprire che, durante una simultanea da remoto, mi sono fatta un video e che l’ho pubblicato su Instagram o su LinkedIn? La risposta ovviamente cambia a seconda del tipo di cliente – ho lavorato con dei clienti che si sono andati a spulciare davvero il mio profilo in passato! – ma io sono per il minimizzare i rischi ed eliminare quelli non necessari.

Ho davvero così tanto bisogno di far vedere che lo so fare e che sono brav*? Ho davvero bisogno di rischiare che qualcuno venga in possesso di informazioni riservate tramite la mia autopromozione sui social? Sempre secondo il sondaggio svolto dalla collega Sarah Cuminetti, il 42,2% degli intervistati ritiene che condividere delle immagini relative al proprio incarico sia un fattore positivo per la propria reputazione. Di questi, il 92,1% ritiene che questo tipo di visibilità sia “good for business”.

Un’altra domanda dello stesso sondaggio chiedeva agli interpreti intervistati se ritenessero che questo tipo di attività sui social aumentasse la probabilità di essere contattato/a da un collega per un lavoro. Di questi, il 40% sostiene che per i colleghi non sia un fattore determinante; il 32,2% sostiene di sì, e il 30,2% sostiene che dipende dall’età del/la collega in merito. Che è un altro spunto di riflessione molto interessante, ma rischieremmo di impelagarci in un articolo lunghissimo (percezione, no?) e in realtà ho in mente un altro progetto in merito. Ma ogni cosa a suo tempo.

Tornando a noi, faccio un’altra riflessione di natura squisitamente pratica: se perdo tempo a smanettare con il cellulare per farmi un video mentre sto interpretando (e facciamo finta per un minuto che non ci sia la questione riservatezza di mezzo) la mia resa ne risentirà? Se sì, varrà quindi davvero la pena mettere online un video in cui non sto dando il meglio di me, sapendo che potenzialmente potrebbe vederlo chiunque e che in questo settore – come in molti altri – la reputazione conta tantissimo? Lavorando come freelance, siamo noi a metterci la faccia. Non ci possiamo nascondere dietro al nome di un’azienda.

Sempre parlando di reputazione, questo video di do’s and dont’s fornisce anche qualche linea guida più pratica e di natura quasi informatica (server criptati, anyone? GDPR?) per gli interpreti:

Non entrerei eccessivamente nel dettaglio degli altri comportamenti che, in linea di massima, sarebbe meglio evitare di tenere sui social, specialmente quando si sta parlando da un account business. Perché lo sapete che, anche se un post viene cancellato, non viene mai davvero rimosso, no? Quando penso a queste cose, non riesco a non pensare a tutte le volte che, magari su LinkedIn o gruppi Facebook di settore, ho letto discussioni di natura politica o religiosa che inevitabilmente hanno cambiato la mia opinione sullo scrivente. Ma comunque.

Mi è anche capitato, come accennavo prima, che i miei clienti mi dicessero esplicitamente di non volere che io pubblicassi nessun tipo di contenuti riguardanti il lavoro che stavo svolgendo per loro, facendomi firmare un NDA apposito. Qualora non siano loro a darmi indicazioni, io inserisco sempre nella mia lettera di incarico una sezione apposita, che il cliente deve firmare, dove mi autorizza a diffondere contenuti multimediali dove potrebbe apparire il nome dell’evento a cui sto partecipando.

E qui mi collego alla parte più concreta di questo articolo, ovvero qualche consiglio per chi – come me e molti altri – vuole comunque mantenere attivi i propri social e arricchire il proprio curriculum con delle esperienze lavorative, ma sempre usando il buon senso e tutelando – ripeto – sia la nostra professionalità che i diritti dei nostri clienti. Questi sono suggerimenti, non regole. D’altronde, è meglio ragionare con la propria testa e valutare ognuno le proprie circostanze, no?

Qualsiasi cosa pubblichiamo online dovrebbe essere un valore aggiunto per i nostri clienti, uno dei motivi per i quali scelgono di lavorare con noi e non con qualcun altro. D’altronde, content is king. Quindi se vogliamo pubblicare qualcosa sarebbe bene che, prima di cliccare su “pubblica” o “condividi”, rispondessimo a questa domanda: “che tipo di valore genera questo contenuto per chi mi legge?

Qui apro e chiudo una parentesi. Per fare un esempio concreto, io ho un account Instagram business aperto a tutti. Spesso condivido – principalmente nelle storie – contenuti che non hanno a che vedere con il lavoro, ma più sulle mie passioni e su cosa faccio nel mio tempo libero, magari i posti in cui vado andavo e cose del genere.

Cerco di fare in modo però di mantenere il mio profilo, questa mia vetrina virtuale, il più “pulito” possibile. Ma non metterò mai delle foto di me in costume da bagno o mentre mi alleno o mentre sto cucinando, non perché ci sia qualcosa di male (ci mancherebbe altro!), ma perché non voglio che il mio cliente, pensando a me, abbia quell’immagine in testa – e perché, oggettivamente, non genera alcun valore aggiunto alla mia professionalità e attività.

Quindi se la risposta alla domanda di cui sopra è solo “beh, faccio vedere che sto lavorando”, occhio a non abusare di questo tipo di post. Anche aggiungere un commento su ciò che si è imparato, una problematica affrontata e risolta o qualcosa di natura più personale, se si vuole (“lavorare su questo documento mi è piaciuto/mi ha aiutato a capire qualcosa di più su…”), è sempre meglio che “oggi ho fatto questa traduzione da XXX parole” o “oggi simultanea [lingua]<>[lingua] in ambito X”.

Come detto sopra, un modo per eliminare il problema alla radice è chiedere esplicitamente il consenso (nero su bianco e firmato) del cliente alla diffusione di materiali audiovisivi. Anche qui, però, sarebbe una buona idea selezionare bene quale tipo di informazione potremmo voler condividere anche qualora il cliente ci abbia accordato questa possibilità.

Stiamo lavorando a una trattativa aziendale per la chiusura di un grosso contratto commerciale? Meglio di no. Stiamo interpretando per una riunione interna, un consiglio di amministrazione, un incarico dove si parla di segreti industriali? Vedi sopra. Stiamo traducendo un bilancio aziendale o un documento istituzionale? Di nuovo.

Vi faccio un esempio, sempre mutuato dalla mia esperienza lavorativa. Lavorando spesso con i cinesi, mi sono trovata di fronte ai due opposti. Dai clienti che mi hanno fotografata una marea di volte (!) e che mi hanno chiesto di farmi delle foto con loro, postandole ovunque, ai clienti che mi hanno tassativamente vietato anche di pubblicare una foto anche solo vagamente relativa all’incarico che ho fatto per/con loro.

Cioè, loro facevano cinquecento foto ogni giorno, che sono stati così carini da avermi mandato, ma mi hanno proprio detto di non pubblicarle in giro. Se nel primo esempio si parlava di tematiche tecniche ma tutto sommato di conoscenza comune relative a dei processi produttivi, nel secondo invece il tema dell’incarico era estremamente confidenziale e delicato. Accade spesso che i clienti mi firmino la lettera d’incarico ma che non mi autorizzino a diffondere alcun tipo di materiale, e va bene così. Non sarà un post in meno a non farmi lavorare più.

Inoltre, anche se il cliente ci autorizza alla diffusione di materiali audiovisivi, proviamo a metterci nei panni di chi partecipa a una riunione e trova il proprio nome, cognome e faccia pubblicato sul profilo di un’altra persona, magari a propria insaputa. A te farebbe piacere? Sempre secondo il sondaggio (sì, hai indovinato) di cui sopra, il 37% degli intervistati dice di non avere problemi ad apparire in una foto condivisa da un/a collega, mentre il 4,4% degli interpreti sostiene che addirittura non lavorerebbe più con la persona in questione per una cosa del genere.

Qualora il cliente ci dica esplicitamente che non vuole vedere assolutamente nulla riguardante quel progetto o incarico sui social, c’è comunque un modo di farsi promozione. Esatto, hai indovinato: un selfie, la foto della tua postazione di lavoro (dove non si vede la finestra di lavoro), una foto dei tuoi appunti (debitamente anonimizzati o dove non si vedano comunque informazioni sensibili quali nomi di oratori, date, nome dell’evento, sigle facilmente riconducibili al progetto…) – insomma, get creative, se proprio non ne puoi fare a meno. Ma sempre facendo moltissima attenzione (e, mi permetto di suggerire, domandandosi perché c’è tutto questo bisogno di postare a ogni costo).

Ci sono svariati modi per anonimizzare una foto. Dagli onnipresenti sticker che possiamo appiccicare un po’ a nostro piacimento (che però, scusate, non fanno molto professionale) a siti, programmi e addirittura app dedicate (io, per esempio, ne uso una che si chiama Point Blur, e no, non sono stata pagata per questo suggerimento) che permettono di “sfumare” l’immagine che vogliamo condividere.

So che passerò per una pazza borderline paranoica, ma è sempre bene concordare anche questi aspetti con i propri compagni di progetto/interpretariato. Mi è capitato, in passato, di voler condividere su una storia di Instagram (che quindi sarebbe sparita dopo 24 ore) la foto dell’ingresso di un convegno per cui avrei lavorato quel giorno in cabina. Nonostante l’agenzia che mi aveva contattato non mi avesse detto nulla in merito, la collega mi ha chiesto di non farlo – e così ho fatto.

Insomma, so bene che questo è un tema abbastanza delicato e la cui interpretazione e/o gestione pratica varia tantissimo in base alla propria sensibilità. Se non si fosse capito, per me è giusto cercare di promuoversi sui social finché ciò non va a ledere la reputazione e i diritti sia del professionista che del cliente. Ma oltre ciò, è un tema decisamente poco battuto e del quale non si parla a sufficienza. Da lì la mia volontà di parlarne in maniera un po’ più approfondita in questo articolo, e dare qualche suggerimento più pratico – che, alla fine, si riassume un po’ tutto in “qualsiasi cosa tu faccia, falla con la testa”.